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domenica 30 novembre 2014

Le Carbonaie in Sardegna

Quella della carbonaia era una tecnica molto usata in passato per trasformare la legna in carbone.
La carbonaia aveva  forma di montagnola conica, formata da un camino centrale e altri canali di sfogo laterali, usati con lo scopo di regolare il tiraggio dell'aria. Il procedimento di produzione del carbone sfrutta una combustione del legno in condizioni di scarsa ossigenazione. I carbonai , uomini adibiti a questo compito, preparavano la legna:  tagliavano gli alberi, portavano la legna ad una lunghezza di circa un metro e, dopo 10-15 giorni di essiccazione lo trasportavano nella piazza da carbone.
Questi piccoli spiazzi erano (e sono) distribuiti nei boschi sardi a distanze regolari e collegati da reti di sentieri: erano lontani da correnti d'aria e costituiti da un terreno sabbioso e permeabile. Molto spesso, visto il terreno scosceso dei boschi, erano sostenuti da muri a secco in pietra. In queste piazzole si ritrovano ancor oggi dei piccoli pezzi di legna ancora carbonizzata.
La legna veniva disposta in cerchio attorno a tre pali di legno, alti circa 2-3 metri, che venivano piantati saldamente nel terreno e formavano il canale centrale. È proprio da questo centro che iniziava la cottura della legna: intorno ai 3 pali veniva disposta prima la legna più grossa (in quanto richiedeva più cottura), poi quella più sottile, in modo da lasciare il foro centrale libero per sistemare poi le braci.
Tale sistemazione richiedeva 2 giorni di lavoro, seguivano poi altri due giorni di lavoro per la copertura con rami, foglie secche e terriccio che isolava la legna dall'aria.
Ai piedi della carbonaia si aprivano dei fori di respiro che dovevano rimanere aperti per tutti i 13-14 giorni di cottura. Dopo qualche ora dall'accensione si alimentava il fuoco con nuova legna e per 4-5 giorni la carbonaia veniva alimentata giorno e notte, finché una consistente fiammata alla sommità annunciava l'avvio del processo di carbonizzazione.
Per una carbonaia di 100 quintali ci volevano 8 quintali di legna per alimentarlo.
A cottura ultimata si iniziava la fase della scarbonizzazione che richiedeva 1-2 giorni di lavoro: si doveva raffreddare il carbone con numerose palate di terra e si spegnevano con l'acqua eventuali braci rimaste accese. La qualità del carbone ottenuto variava a seconda della bravura ed esperienza del carbonaio, ma anche dal legname usato. Il carbone di ottima qualità doveva cantare bene, cioè fare un bel rumore.
In Sardegna il periodo di maggior diffusione delle carbonaie ci fu tra l''800 e il '900: il carbone di legna veniva usato largamente per la cucina e per il riscaldamento delle case.
http://www.videolina.it/video/servizi/14349/carbonai-sardegna-toscana.html

Escursione alle cascate di Piscina Irgas tra antiche carbonaie
https://www.facebook.com/events/766611833392334/771786199541564/?notif_t=like



giovedì 27 novembre 2014

Ghetto degli Ebrei - Cagliari

Il complesso noto come  “ghetto degli ebrei” sorge sul Bastione Santa Croce, tra la via omonima e via Cammino Nuovo, a picco sulle mura di cinta del quartiere di “Castello”. L’edificio nasce nel 1738 come caserma militare intitolata a Carlo Emanuele III per volontà del viceré Carlo di Rivarolo. L’opera fu progettata dagli ingegneri militari piemontesi e doveva ospitare il reparto dei “Dragoni di Sardegna”. Nel 1836, all’epoca di massima attività della caserma “San Carlo”, vi alloggiavano circa 300 uomini e 40 cavalli.  Questa struttura ebbe funzioni  militari sino al XIX secolo. Alla fine dell’Ottocento, cessato l’uso militare, l’edificio fu ceduto a privati e trasformato in piccole abitazioni diventando realmente un piccolo “ghetto", all’interno del quale trovarono alloggio diverse famiglie povere. Inevitabilmente l’area fu soggetta a degrado, rovina che fu acuita poi durante i bombardamenti del 1943 che procurarono ingenti danni alla struttura. Subito dopo la Seconda Guerra Mondiale, la struttura tornò ad ospitare abitazioni private e ancora oggi ne esistono nella parte dell’edificio a cui si accede tramite il portico sopra il quale si trova l’epigrafe con la data di costruzione della caserma.
La denominazione “ghetto degli ebrei” deriva dal fatto che nei pressi di questo edificio, anticamente, esisteva il quartiere dove gli ebrei realmente abitavano, la cosiddetta “Giudaria”, il quartiere sorgeva tra via Santa Croce e via Stretta. In quest’area sorgeva pure la sinagoga, successivamente soppiantata dalla basilica di Santa Croce.  La presenza di ebrei in Sardegna è attestata sino al 1492, quando i reali di Aragona promulgarono su tutto il Regno di Castiglia e di Aragona l’editto con il quale gli ebrei venivano scacciati da tutti i territori reali. Ne consegue che un vero e proprio ghetto ebraico sul modello di quello esistente a Venezia nel 1500, a Cagliari non è mai esistito.

Il “ghetto degli ebrei” oggi è un centro culturale polifunzionale accoglie, al suo interno, il “Museo delle torri e dei castelli di Sardegna”. Inaugurato nel 2002 ospita la collezione “Monagheddu- Cannas” composta di ricostruzioni in scala, riproducesti manufatti militari appartenenti a varie epoche costruiti a difesa della Sardegna.

lunedì 24 novembre 2014

Monti Prama e i suoi Giganti

 
 
La necropoli di Monti Prama, con le sue monumentali Statue, è un sito unico in Sardegna.
Le Statue, che rappresentano pugilatori, arcieri e guerrieri, dovevano marcare con forza il territorio, attraverso l’ostentazione dei valori riconosciuti di una comunità che, secondo alcuni studiosi, era diventato la più potente o, tra le più potenti in tutta l’isola.
Il Sinis è una zona ricca di risorse: stagni, lagune e mare, il terreno è fertile e si raggiungono facilmente aree ricche di risorse minerarie (compreso il monte Arci). La costa permette facili e sicuri approdi, come a Tharros. In questa terra felice, alcune comunità iniziano ad emergere tra le altre.
Ad un certo punto dell’età del Ferro, nel IX sec. a.C. una, o più comunità, individuano un’area da destinare a necropoli, in cui i defunti sono sepolti in pozzetti. I contatti con gli stranieri levantini si fanno più frequenti e la comunità sente l’esigenza di ostentare la propria superiorità. L’area viene pavimentata e vengono create nuove tombe a pozzetto, ricoperte da lastroni, sopra i quali vengono posizionate imponenti statue.
È evidente l’influsso della grande statuaria giunta da oriente: i membri delle famiglie integrano questo nuovo concetto e lo adattano alla piccola bronzistica figurata nuragica, introducendo solo pochi dettagli stranieri nell’abbigliamento, forse all’inizio, con il supporto di artigiani esterni.
Secondo alcuni studiosi, dunque, gestire il rapporto con gli stranieri, da cui si ricevono in dono oggetti preziosi, che vengono esibiti in luoghi e situazioni particolari, assicura e rafforza l’autorevolezza.
Le statue rappresentano la volontà di monumentalizzazione e raffigurano i valori della comunità: virtù militare, sfera religiosa, mito di fondazione, dove i defunti assurgono al rango di antenati della stirpe asserendo il diritto al potere della comunità.
 
 
Il viaggiatore percorrendo la strada che passava in prossimità delle statue, veniva pervaso da un’aura sacrale, che incuteva a chi passava rispetto, riverenza e timore.
Per quanto riguarda la distruzione di questo Heroon gli archeologi non sono d’accordo.
Secondo Raimondo Zucca la distruzione potrebbe essere legata alla nascita della vicina Tharros: potrebbe, cioè, riferirsi ad un momento in cui il popolo sardo-fenicio di Tharros, volle liberarsi dagli esosi prelievi  sulle merci, veicolate nel porto e controllate dalle comunità sarde, che avevano eretto lungo l’unica via di collegamento tra il porto e le fertili piane del campidano settentrionale e le miniere del Montiferru i KOLOSSOI di Monte Prama.
Queste sono solo ipotesi, intanto gli scavi continuano....
Bibliografia: I Giganti di Pietra, A. Bedini, C. Tronchetti, G. Ugas, R. Zucca.
 

giovedì 20 novembre 2014

Orbace

 L'orbace è un tessuto di lana di pecora tipico della Sardegna, più tecnicamente è un panno ottenuto mediante una specifica lavorazione che risale ad epoche lontanissime. La parola deriva dall’Arabo “al-bazz” e significa stoffa, tela. L’armatura del tessuto è a tela e il colore tipicamente scuro è ottenuto con la tintura, perché naturalmente risulterebbe di colore bigio.

Prima di tutto si selezionano i peli più lunghi della lana, poi, dopo la tessitura, si ha il processo di “follatura” in cui si provoca l’infeltrimento così da ottenere un panno robusto e impermeabile. Il processo di “follatura” prevede di esercitare grandi pressioni sul tessuto imbevuto di acqua calda insaponata, allo scopo di far compenetrare tra loro le fibre e ottenere un tessuto compatto. Questa operazione veniva tradizionalmente effettuata calpestando a piedi nudi i tessuti, successivamente questo processo avvenne in maniera più sviluppata, utilizzando magli appositi, le “gualchiere”, che erano messi in movimento da ruote che sfruttavano la corrente dei corsi d'acqua. In Sardegna, interi villaggi erano dediti alla produzione di orbace, per esempio Arbus, nel Medio Campidano, o Tiana, nel Nuorese, che conserva ancora oggi una gualchiera funzionante.

L’orbace era il tessuto più usato nell'abbigliamento quotidiano. Ad esempio, di orbace veniva fatto “su saccu” che serviva ai pastori sia da mantello che da coperta ed è composto da due teli abbastanza lunghi cuciti, per il lungo, l’uno sull'altro. L’orbace era ed è usato tuttora  anche per la confezione dei caratteristici costumi locali, sia maschili che femminili e dei “gabbani”, una specie di cappotto con cappuccio.

Alcuni studiosi affermano che l'orbace veniva usato anche in epoca romana per equipaggiare i soldati che andavano in guerra. Sicuramente di orbace erano i sai dei monaci medievali. Mentre in epoche più recenti, venne usato ad esempio durante il Fascismo, quando il Regime promosse l'Autarchia, e si incrementò l'uso dell'orbace al posto dei tessuti tradizionali. Vi fu una vera e propria "campagna dell'orbace" che ebbe riflessi positivi sull'economa rurale della Sardegna. Di orbace erano infatti le uniformi della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale, le cosiddette "camice nere" e delle organizzazioni giovanili, i Balilla e le Giovani Italiane.




lunedì 17 novembre 2014

Lo zafferano in Sardegna


 

Lo Zafferano di Sardegna è un marchio di qualità europeo che designa una pianta erbacea essiccata in stimmi o fili, appartenente al genere Crocus sativus, coltivata, raccolta e lavorata nella provincia del Medio Campidano, in Sardegna. Tra i paesi in cui si produce lo zafferano troviamo: San Gavino Monreale, Turri e Villanovafranca, situati nella provincia del Medio Campidano.
Nel febbraio 2009, la denominazione Zafferano di Sardegna è stata riconosciuto denominazione di origine protetta (DOP).
Questo è periodo di raccolta in Sardegna.
 La raccolta dello zafferano avviene tra la fine di Ottobre e l’inizio di Novembre, la mattina presto, per evitare che il fiore subisca troppi danni dalle condizioni meteo.
La Raccolta consiste nel recidere il fiore nella parte appena sotto al calice con un taglio praticato con l'unghia del pollice sull' indice, facendo molta attenzione a strappi o movimenti bruschi che possano rovinare i pistilli rossi. Lo Zafferano viene poi riposto sui cestini in vimini per essere poi trasportato all' interno del laboratorio di trasformazione, dove si svolge la fase della pulitura del fiore, detta anche mondatura. Si separano gli stimmi dalle restanti parti del fiore, ossia dal perigonio e dagli stami.
Per rendere il prodotto più puro possibile occorre eliminare completamente la parte biancastra dello stilo che tiene uniti i tre stigmi. Un'esperta pulitrice può pulire una media di 600 fiori all’ora circa.
Gli stimmi vengono sistemati per l'essiccamento, vicino a sorgenti di calore blando (sole, camino, o qualunque fonte di calore che permetta una temperatura costante tra i 35-45 °C) fino a quando gli stimmi si spezzano facilmente con frattura netta.
Per ogni ettaro coltivato si ottengono, mediamente, 9 o 10 chilogrammi di zafferano essiccato. Nella cucina sarda si utilizza un po’ dappertutto: la fregola (il cuscus sardo), i malloreddus, il ragù di salsiccia, le minestre, il brodo e i dolci, come le pardulas (fagottini ripieni di ricotta o di formaggio e cotti al forno) e i fritti di carnevale.
È ricco di carotenoidi che riducono i danni cellulari provocati dai radicali liberi. Uno dei suoi utilizzi più tipici nella cucina italiana è nel risotto alla milanese o "risotto giallo", così noto appunto per la colorazione che lo zafferano dà alla ricetta.
Furono le popolazioni arabe che per prime attribuirono allo zafferano proprietà curative, come quella di indurre addirittura il buonumore, quasi un antidepressivo naturale.

giovedì 13 novembre 2014

Cala Sisine - Baunei (OG)



Cala Sisine si contende con Cala Luna,  Cala Goloritzè e Cala Marioulu la palma della più bella del golfo di Orosei. Cala Sisine ha un vantaggio in più è completamente immersa nel verde.
Si trova tra Cala Luna e Cala Biriola e si apre al termine di una lunga e profonda valle ricca di lecci, carrubi, tassi e ginepri che si percorre a piedi in un paio d’ore. Cala Sisine si può raggiungere solo a piedi, passando dall'altopiano del Golgo, territorio di Baunei,  e camminando sul greto asciutto del torrente, o via mare con le barche che fanno sevizio da Santa Maria Navarrese, Arbatax e Cala Gonone. 

La cala è chiusa da falesie calcaree alte più di 500 m.  che scendono a picco sul mare. La cala è lunga circa 200 m. ed è un misto di sabbia e ciottoli bianchi. Il colore verde turchese e la relativa tranquillità delle acque rende questo luogo ideale per chi pratica snorkeling. Da non perdere la grotta di “Su meràculu”. In questa grotta la natura nel corso di milioni di anni ha creato diversi ambienti comunicanti, delimitati da pareti frastagliate e concrezioni calcaree bizzarre. L’atrio, attraverso uno stretto corridoio, si collega al vano centrale lungo circa 100 m. ricco di colonne e sculture naturali che lasciano senza fiato per la loro imponenza. Continuando nella visita si incontrano altre cavità ipogee con una sorgente d’acqua naturale usata anticamente anche dai pastori della zona che in questi anfratti trovavano riparo e ristoro. Lungo il percorso, le stalattiti e le stalagmiti creano straordinari effetti di luce riflessa suscitando un’emozione dietro l’altra.

lunedì 10 novembre 2014

Domus de Janas di Sant'Andrea Priu a Bonorva


 

La necropoli a domus de janas di Sant'Andrea Priu a Bonorva
 

 è costituita da una ventina di tombre scavate lungo un costone trachitico
nel neolitico recente (5000 anni fa circa!) in territorio di Bonorva. Questa tipologia tombale si ritrova in tutto il macino del Mediterraneo, anche se in Sardegna, abbiamo gli esempi più antichi. In Sardegna queste tombe vengono chiamate domus de janas, case delle fate, per le numerose leggende associate a misteriose fate che abitavano in queste grotticelle.

A Sant'Andrea Priu quasi tutte le tombe sono composte da più ambienti, nei quali venivano sepolti i defunti: la posizione sotterranea garantiva la rigenerazione del defunto, immerso nel grembo della Madre terra e accompagnato da oggetti s'uso e ornamenti, da utilizzare nella vita ultraterrena. In questi ambienti venivano anche svolti dei riti sacri, come testimoniano le coppelle scavate sulla roccia e destinate ad accogliere offerte.

Coppelle per le offerte
Una delle cose che più sorprendono osservando queste grotte artificiali e che esse vennero scavate con strumenti in pietra, non essendo ancora utilizzato, se non in maniera molto limitata, il metallo. Alcune di queste tombe vennero anche riutilizzate in periodo storico come la famosa Tomba del Capo, costituita da 18 vani e 14 cellette più piccole.  Il monumento ha subito alcune trasformazioni in età paleocristiana, bizantina e medioevale, quando fu adibita a luogo di culto, per poi essere consacrata nel 1313 come chiesa intitolata a Sant'Andrea. Troviamo degli affreschi di particolare bellezza datati al IV se. D.C e altri più tardi: scene del nuovo testamento  che riguardano la nascita e la vita di Gesù,  l'annunciazione, la strage degli Innocenti o il ritorno dall'Egitto della Sacra Famiglia.
Tomba del Capo
 

Sulla sommità della rupe si erge una singolare statua, denominata "Campanile" dagli anziani bonorvesi, che da alcuni studiosi è stata interpretata come una scultura monumentale, mutila della testa, che rappresenterebbe un toro, simbolo presente in tante altre necropoli a domus de janas dello stesso periodo e legato al tema della fertilità.

giovedì 6 novembre 2014

Il Grifone

L’Avvoltoio Grifone durante il suo volo in cui disegna cerchi concentrici sempre più ampi  sembra arrampicarsi in cielo per poi precipitare in mare. Lungo la strada panoramica che da Bosa conduce ad Alghero  non è raro ammirare le sue evoluzioni. 

Questi rapaci ormai sono ridotti ad una colonia di circa ottanta esemplari con 20-22 coppie nidificanti in questa zona nord occidentale dell’isola. Si tratta dell’unica colonia autoctona e nidificante in Italia, un vanto per Bosa e la Planargia. Purtroppo però, spesso cadono vittima dei bocconi avvelenati sparsi in campagna per colpire volpi e cani randagi, o deliberatamente catturati per essere imbalsamati. Nel 1987 e 1989, con un progetto realizzato dalla L.I.P.U. e dalla Regione Sardegna, sono stati immessi nel Montiferru di Cuglieri 36 Grifoni provenienti dalla Spagna e dalla Francia.

I Grifoni sono caratterizzati da una colorazione marrone-rossiccia sul dorso e sulla parte superiore delle ali; il petto è di color giallognolo con leggere sfumature rossicce; il piumaggio è cortissimo sul collo e sulla testa ed è di colore bianco; la parte inferiore delle ali è più scura rispetto al dorso. La coda è piuttosto corta rispetto ad un’apertura alare di 245-270 cm. Le dimensioni degli adulti si attestano intorno ai 95 cm. di lunghezza nei maschi, mentre le femmine sono più grandi di una decina di centimetri. Il peso varia dai 7,5 kg. per il maschio a più di 8 kg. per la femmina.

L’habitat ideale dei Grifoni è l’ambiente aperto dove possono facilmente localizzare le carogne degli animali morti e nidificare tra gli spuntoni di roccia. Si tratta di una specie molto sociale che ama stare con i propri simili nelle zone di nidificazione e durante la ricerca di cibo. Essendo un abile veleggiatore è pure in grado di effettuare lunghi spostamenti alla ricerca del cibo. Il Grifone si nutre prevalentemente in gruppo e ha l’abitudine di depositare la carne strappata dalla carcassa nel gozzo per poi rigurgitarla ai suoi piccoli nel nido.

lunedì 3 novembre 2014

Launeddas




Le “launeddas” sono uno strumento musicale a fiato policalamo, cioè costruito con diverse canne, ad ancia battente semplice, cioè con una linguetta mobile la cui vibrazione fa suonare lo strumento. 

È  di origini antichissime ed è in grado di produrre delle polifonie. Viene suonato con la tecnica della respirazione circolare, o fiato continuo, cioè senza interrompere il flusso d’aria immesso nello stesso.

Lo strumento è formato da tre canne, di diverse misure e spessore, con in cima la “cabitzina” dove è ricavata l'ancia.

_ La prima canna, il basso, “basciu” o “su tumbu”, è la canna più lunga e fornisce una sola nota, quella tonica su cui è intonato l’intero strumento ed è privo di fori.

_ La seconda canna, “mancosa manna”,  ha la funzione di produrre le note dell’accompagnamento e viene legata con spago impeciato al basso.

_ La terza canna, “mancosedda”, è libera, ed ha la funzione di produrre le note della melodia

Sulla “mancosa” e sulla “mancosedda” vengono intagliati a distanze prestabilite quattro fori rettangolari per la diteggiatura delle note musicali. Un quinto foro, “arreffinu” è praticato nella parte terminale delle canne, opposto all'ancia.
L’accordatura viene effettuata appesantendo o alleggerendo le ance con l'ausilio di cera d'api.
Per la costruzione delle Launeddas si usa la canna fiume, “ arundo donax”, la canna comune, o la “ arundo pliniana turra”,  chiamata “canna 'e Seddori “, un tipo particolare di canna che cresce principalmente nel territorio della Marmilla compreso fra Samatzai, Sanluri e Barumini.  La canna comune viene utilizzata per la costruzione de “su tumbu” e delle ance, mentre "sa canna 'e Seddori" viene utilizzata per la costruzione della “mancosa” e della “mancosedda”. Rispetto alla canna comune, “sa canna 'e Seddori”  presenta una distanza internodale molto maggiore, che può arrivare a diverse decine di centimetri, ed uno spessore notevole, che la rende più robusta e conferisce allo strumento un timbro particolare.